la televisione locale: regionale o metropolitana?
rivista innovazioni aprile 2006 (scarica pdf a sx)
e’ incredibile: le grandi aree metropolitane italiane (roma, milano, napoli…) grandi ognuna come metà della svizzera e dell’austria, dispongono di giornali quotidiani e di altra stampa locale, ma non di canali televisivi in grado di fare informazione e rappresentazione del territorio in maniera adeguata e professionale.
le tivù locali sono un numero altissimo (circa 700) ma, proprio per la loro frammentazione, non hanno la forza di fare qualcosa in più di brevi notiziari e dibattiti e la loro identità annega tra vendite dirette e pubblicità. i tigì del servizio pubblico, organizzati su base regionale e non per aree metropolitane, riescono a soddisfare questa necessità?
per tentare una risposta ripercorriamo brevemente la storia del decentramento rai.
nel 1979 la rai, a seguito della legge di riforma del 1975, iniziò le trasmissioni di raitre, rete a metà tra nazionale e regionale. erano già proliferate in italia le tv locali e stavano per nascere le reti nazionali di mediaset. la formula partì in maniera cauta. lo spazio regionale era limitato al tg locale delle 19, con mezz’ora di programmi due volte a settimana. il resto della programmazione era centrale con contributi regionali. si pronunciavano discorsi magniloquenti sul decentramento: diamo possibilità alle venti regioni, attraverso proprie sedi e centri di produzione, di servire direttamente il territorio e di auto-rappresentarsi.
era questa la vera intenzione? no, in realtà la spinta era politica, proveniva dal gigante dell’opposizione, il pci, e dal suo straordinario successo nelle regionali del ’75. la sua marcia verso il potere, che sembrava inarrestabile, avrebbe avuto forte supporto dal basso, dalla comunicazione regionale. la dc, che ancora controllava saldamente la rai, accettò la sfida ed applicò un’accortissima lottizzazione di tutti i ruoli (redazioni giornalistiche e dei programmi, strutture di produzione); ci si preoccupò soprattutto del pluralismo, di creare un equilibrio dando spazio, col bilancino, a tutte le componenti.
i primi anni, nonostante le difficoltà produttive, furono molto positivi: si toccò con mano che la tivù poteva entrare dal basso, essere un servizio locale che infrangeva la sacralità delle trasmissioni nazionali; era una tivù minimalista, della porta accanto, che non poteva competere per mezzi e capacità produttive con quella nazionale, ma che era ad essa complementare, una presenza in video di livello professionale e realizzata secondo la tradizione rai. i notiziari erano integrati dalla presenza dei programmi che cominciarono a tracciare un ritratto della vita regionale, dei suoi personaggi, delle tradizioni e della cultura. dai programmi si affacciarono giovani autori, artisti, intellettuali, imprenditori, gruppi, associazioni e altri protagonisti della vita sociale che altrimenti, molto difficilmente, avrebbero avuto spazi e opportunità nazionali. i programmi, per loro natura aperti all’esterno, creavano un indotto di espressione e costituirono una documentazione visiva della storia locale di quegli anni. la compresenza, attraverso tivù e radio dei due elementi, notiziari e programmi, notizie e approfondimenti, cominciava ad assumere identità di rete locale. da questo innesto partiva un ritratto dell’italia a tutto tondo.
l’esperienza fu breve: nel 1987 raitre mutò il suo ruolo in rete nazionale, per affiancarsi alle due sorelle maggiori nella competizione con il privato. la rai perse interesse al decentramento perché la stagione del “consociativismo” frenava le contese politiche periferiche. le sedi regionali erano piene di tensioni tra giornalisti e programmisti, dovute alla carenza di mezzi da spartirsi. per tacitarle si decise di chiudere i programmi, assegnando risorse e persone alle redazioni dei telegiornali. il risparmio fu insignificante; la piena padronanza delle sedi non bastò alle redazioni giornalistiche. ci fu solo un risultato negativo: si arrestò il processo di crescita espressiva a contatto con il territorio, che era caratteristica dei programmi. fu eliminata la possibilità di sperimentare e di far emergere, dalla provincia, voci, talenti e idee. si arrivò perfino allo spreco dei mezzi; pensiamo alle risorse radiofoniche: nelle sedi regionali esistono tuttora piccoli auditorium, con impianti di alto livello, inutilizzati.
dopo quasi vent’anni, tracciamo un bilancio: i tigì regione, da soli, sono riusciti a corrispondere ad un’identità locale?
il primo elemento per una risposta negativa deriva dalla configurazione di origine. nati per servire un’intera regione, i tigierre si sono trovati stretti dal sovrapporsi di richieste presenze politiche, provenienti da giunte e consigli regionali ( fin qui ovvio) ma anche da città e province più forti rispetto ad altre e da esponenti nazionali. e come si contentano queste pressioni? trasmettendo dichiarazioni, convegni, manifestazioni, tagli di nastri. dall’inevitabile subalternità ai partiti ne è sortito un risultato piatto, che non approfondisce le dinamiche del territorio. il dovere di dar attenzione a più province non consente nemmeno lo spazio di entrare nel cuore delle diatribe cittadine.
il secondo elemento è la cronaca regionale: agli ascoltatori di treviso può interessare la propria notizia o quella delle vicine venezia o pordenone, ma non quella di verona o rovigo (i fatti più eclatanti sono già in nazionale). i confini regionali non coincidono con omogeneità di aree.
il terzo elemento è l’identità di canale. due edizioni del tgr su una rete nazionale non bastano a fare immagine: senza la sinergia di altri spazi di programmi (come inchieste, approfondimenti, dirette, documentari, vita e personaggi) restano come finestrelle che si perdono in una grande facciata.
e’ possibile rilanciare la televisione decentrata? su quali basi configurarla? come immaginarne le dinamiche?
difficile sarebbe oggi pensare che la rai, ingabbiata dalla sudditanza ai partiti e dalle logiche di ascolto, possa riformare la sua presenza ricreando una rete regionale. dovrebbe avere un’autonomia imprenditoriale ed editoriale e un finanziamento pubblico, almeno di investimento, per procedere ad una tale impresa. una riflessione tuttavia va avviata per pensare al futuro del servizio pubblico. bisognerebbe inventare una formula nuova per una rete o per più reti regionali: gestione pubblica dei canali (perché le frequenze, bene pubblico, devono essere in proprietà ai privati? chi gliele ha date?) con partecipazione di più iniziative editoriali private locali. un sistema misto di concessioni limitate e a termine, utilizzando le nuove opportunità del digitale terrestre.
l’assenza di vere tivù locali si ripercuote sugli sviluppi sociali e sulla crescita culturale dei territori. pensiamo alla calabria: una forte informazione televisiva sarebbe utile alla lotta alla criminalità e a nuove iniziative per il lavoro? notizie in tempo reale sulla viabilità aiuterebbero a decongestionare il traffico nel nord-est? informazioni non superficiali sulle dinamiche, anche locali, dei mercati e dei consumi non sarebbero utili alla piccola industria? segnalazioni particolari, anche minime, su occasioni di lavoro, servirebbero alla mobilità? queste notizie possono darle anche i giornali e le radio locali, è vero, ma la televisione integra e sviluppa la stampa, arriva dove l’altra non arriva e le funge da richiamo, si è visto anche a livello nazionale. le dimensioni dell’abitare, della vita sociale, della lingua parlata, dell’espressività individuale e di gruppo in televisione passano più direttamente.
la configurazione delle reti regionali dovrebbe avere caratteristiche nuove: assenza di paletti geografici e aderenza ad aree omogenee, flessibilità organizzativa, uso di tecnologie a basso costo, non competitività con le reti nazionali, interattività con altri mezzi e soggetti (radio, internet, videotelefoni, teatro, manifestazioni pubbliche, attività sportive, enti locali, insediamenti turistici, volontariato, scuole e università). scopi principali: l’informazione, un’informazione scapigliata e vivace, libera da regole corporative, e lo spettacolo come cronaca, assaggio ed esperimento.
l’accessibilità di espressione alle reti locali darebbe modo, a chi ha idee e iniziative, di mettersi in mostra e di creare alternative. romperebbe il circuito chiuso nazionale dell’informazione, dello spettacolo e dell’editoria, sempre più oligarchico, esclusivo ed asfittico. giovani armati di una piccola telecamera potrebbero mostrare le pieghe dell’italia, gli angoli insoliti, volti e storie della normalità, soprusi e violazioni, esperienze di progresso. pensiamo alle migliaia di ragazzi che studiano (inutilmente!) le teorie di scienze delle comunicazioni, senza aver la possibilità di dire due parole in un microfono o di far passare un comunicato stampa sensato. la sperimentazione (e la selezione!) sul campo sarebbero molto più utili di un titolo accademico svuotato.
lo sviluppo e la diffusione di tecnologie semplici e a basso costo possono rendere più democratica la televisione, come lo è già la radio, se al servizio di canali regionali. restano due problemi: l’accesso alle reti di trasmissione e gli incentivi per un’editoria televisiva locale.