“la televisione ti porta il mondo in casa” si diceva negli anni 60. mi ricordo che nella mia infanzia ero affamato di immagini: andavo di sera in un bar affollato per guardare il piccolo schermo, ritagliavo foto a colori dai rotocalchi, al cinema cercavo di restare in sala per vedere due volte lo stesso film e il notiziario incom. notizie visive dal mondo cominciavano ad arrivare a poco a poco, piccole come noccioline: gli incontri dei potenti, il volto di nilla pizzi (era solo una voce radiofonica), facce di popoli diversi dal nostro, grattacieli, spettacoli e ricchezze lontani. facevo i confronti con la nostra semplicità degli anni 50 e 60 e cresceva la voglia di conoscere il mondo, di ingoiarlo attraverso quello schermino in bianco e nero, spesso sfuocato. e la televisione mi ha dato il mondo, me lo ha fatto conoscere, come telespettatore e poi come professionista della stessa.
“la televisione ha invaso il mondo” è la situazione di oggi, il contrario delle aspettative della mia infanzia. quando viaggio in europa, in america, in asia e accendo un televisore, le immagini sono sempre le stesse, dappertutto uguali: gente plastificata in poltrona con contorno di pubblico plaudente, giochi a premi senza abilità, novelle sdolcinate e strappalacrime, telegiornali dove la notizia principale è il volto del giornalista, servizi brevi ma inzuppati di bombe, sangue e cadaveri, film dalla catene di montaggio di hollywood o bollywood.
il mondo, quello vero, in televisione non si vede. le immagini della vita reale bisogna andare a cercarle in circuiti riservati, nei festival e rassegne di qualità, in qualche canale satellite di nicchia, ma esistono, vengono realizzate in tutte le lingue e i generi ( sceneggiati, inchieste, arti della scena) e mostrano problemi, tragedie ma anche iniziative e proposte della gente, modi di vivere, espressioni della cultura, angoli inusuali di città e campagne, bellezza e degrado della natura.
così è all’estero, così è da noi: la televisione più che un mezzo è un’industria che occupa, omologa, nasconde, monopolizza. un mondo virtuale che ammanta quello vero, con una sinergia di generi (dall’informazione allo spettacolo, alla cultura) che, invece di differenziarsi e di svilupparsi, si contaminano, si copiano, si sovrappongono, si stringono in una ragnatela omogenea per espellere, in nome di un pubblico asseverato, immagini, persone e espressioni non comode e non funzionali a questo circo di nomi “firmati”.
qual è la conseguenza di questa occupazione della tivù? la più evidente è l’influenza politica, insieme a quella economica e pubblicitaria, ma è superfluo soffermarsi su questo aspetto. vorrei evidenziarne altre che sembrano marginali ma non lo sono.
la marginalizzazione della vita reale. nei telegiornali appaiono spezzoni di guerre (alcune non tutte), baruffe politiche, delitti e disastri, bel mondo patinato. sembra che non ci siano altre notizie. i programmi sono rinchiusi in studio con volti noti, cuochi e sarti, storie finte. non si entra più in una fabbrica, in una scuola, in una parrocchia, in una strada di città o di paese, in un’abitazione se non in occasione di eventi tragici o di spettacoli in cui tutto viene ben lustrato dagli scenografi. la normalità con i problemi, i grigiori, le pesantezze, ma anche con la vitalità, la gioia e le aspirazioni della gente sono esclusi.
non vediamo l’italia di oggi, ma non sarà più possibile vederla in futuro. dove sono le immagini che la documentano? quelle dagli anni novanta in poi vanno via via scomparendo nelle nostre teche. che cosa resterà
i programmi più felici della televisione di oggi sono quelli in cui si rivisita gli anni del dopoguerra, fino agli anni 80. il grande merito di aver dato il via al genere della rivisitazione è stato di carlo fuscagni e paolo frajese, con “trent’anni della nostra storia” 1984, ripreso poi da molti altri programmi.
quando si vedono in bianco nero (la pellicola che non ha tradito) scene di città e di famiglie dal neorealismo, canzoni poetiche e cantabili, eventi e personaggi esposti con la sinteticità di fotogrammi preziosi, tumulti e drammi “girati” con rispetto delle vittime, difficoltà e speranze testimoniate da persone comuni, allora si comprende quale sia stato il ruolo fondamentale del servizio pubblico (la rai, l’istituto luce, cinecittà) nel servire gli spettatori, gli italiani, l’italia e la storia.
un ruolo che negli ultimi anni è stato offuscato e confuso da una competitività interpretata (male) al ribasso dell’offerta. perché? il personale, la politica, la pubblicità.
filiberto guala e ettore bernabei avevano convogliato in rai le forze migliori della cultura, del cinema, del giornalismo, dello spettacolo, della scienza, della religione. non c’è nome significativo, dagli anni cinquanta agli ottanta, che non sia stato coinvolto, senza discriminazioni. e’ vero che c’era anche censura di costume e politica ma è anche vero che tutti gli uomini dell’opposizione, di sinistra e di destra, hanno avuto opportunità di presenza e di espressione. l’unica esclusione traumatica, ma non assoluta, fu quella di dario fo.
il personale (dai tecnici ai dirigenti) veniva selezionato per concorso, per chiamata diretta o sul campo, ma comunque ne venivano verificate le attitudini e i programmi venivano ideati all’interno della struttura, partendo dai contenuti. c’erano troppi dipendenti e collaboratori? e’ vero, il numero era cospicuo, ma questa è stata la grande ricchezza dell’azienda, ovvero la possibilità di poter rincalzare, sostituire ma con una continuità di esperienze, di modalità produttive, di garanzie professionali. in una fabbrica di idee la risorsa principali sono le persone, non le macchine o i finanziamenti. grazie a quell’ossatura la rai è sopravvissuta ed ha mantenuto il suo ruolo. negli ultimi dieci anni i governi aziendali, tranne poche pause, hanno perseguito forsennatamente il capitale umano della rai, umiliandolo, perseguitandolo, eliminandolo. un tentativo tutto politico, da entrambe le parti, di asservimento totale e di favoreggiamento di realtà esterne, esistenti o ipotizzabili.
lo svuotamento dei quadri rai e il trasferimento all’esterno delle capacità produttive hanno determinato anche la carenza di idee e il degrado della qualità. non è vero che la concorrenza si batte solo con l’abbassamento dei livelli. questo concetto è comodo solo alla pigrizia mentale. in assenza di capacità creativa ci si rivolge alle agenzie internazionali che propongono di copiare “formati” sperimentati in altri paese, e che creano, con tecniche pubblicitarie, “divi” che acquistano notorietà solo grazie alla continuità della presenza imposta in video e non in base a numeri professionali. film, telefilm e programmi vengono comprati all’estero in pacchetti, spesso a scatola chiusa, imposti dalle maggiori distribuzioni. chi compila gli schemi di programmazione cerca di andare a colpo sicuro con prodotti di facile commerciabilità o protetti. i programmi contenitori che allargano sempre di più la fascia oraria non vengono pensato in base ai contenuti, ma in base ai “volti”, decisi dall’alto, che dovranno occuparli e gestirli.
la presenza mediatica ha tale forza persuasiva da abbagliare anche chi, dotato di strumenti culturali, dovrebbe distinguere e cercare alternative. si da credito a chi appare; il “famoso” viene ascoltato, coinvolto, incaricato anche in ruoli, materie, funzioni che non gli competono affatto e in cui non può dare nulla di significativo.
si blocca pertanto la crescita degli altri, dei competenti ma oscuri, negando loro opportunità di espressione. non c’è ricambio, alternativa, rotazione, sperimentazione. il risultato è desolante per il pubblico, anche se trionfalistico per numeri presunti di ascolti (è scientificamente provato l’auditel?) ma soprattutto è deleterio per la crescita civile, culturale ed economica del nostro paese.
con “lascia o raddoppia?” si premiava chi sapeva rispondere a domande su una materia qualsiasi, presupponendo quindi un minimo di studio, con il “grande fratello” si premia chi è più sfacciato al cesso.
l’alternativa non è costruire una “tetra rete” di servizio pubblico, lasciando tutto il resto al dominio della pubblicità. bisogna ridare forza al servizio pubblico. sono sconcertato rispetto all’ipotesi, rilanciata anche in ambienti del centro sinistra di uno smantellamento della rai, vendendo una o due reti o privatizzando il capitale sociale. ho sentito molti discorsi teorici, progetti elaborati a tavolino, richiami a leggi e sentenze costituzionali che comunque sono state disattese e ignorate per venticinque anni in favore dell’emittenza privata. ed ora ci si appella al rigore della legge per demolire decisamente la rai? ci si illude che l’alternativa e il terzo e quarto polo e il pluralismo possano nascere dalle ceneri dell’azienda di servizio pubblico? l’impressione è che si parli molto di massimi sistemi e di scenari futuri, ma che non si sia in grado di affrontare le difficoltà del momento.
la rai è sopravvissuta finora proprio perché è una grande casa antica, con tante stanze; si tiene in piedi perché una parete sostiene l’altra ed ha fondamenta profonde. se si comincia ad abbattere qualche ala, il palazzo è destinato a crollare. nessuno riuscirebbe a ricostruirlo. si pensi all’esperienza francese: disciolto l’ortf le reti del servizio pubblico hanno stentato a rinascere e sono rimaste decisamente minoritarie e marginali.
quali garanzie di legge? personalmente credo poco all’efficacia di norme in un settore la cui gestione si basa sull’opinabile. la libertà di pensiero, di espressione, di pluralismo, di pari opportunità sono garantite in un paese civile sopra tutto dal costume e dal rispetto dei codici morali e delle leggi materiali della convivenza civile.
la prima repubblica aveva la caratteristica del rispetto delle regole di confronto, pur nell’asprezza del contrasto politico. la seconda repubblica ha la caratteristica di eludere le regole o di modificarle con prepotenza a proprio vantaggio. se non si ristabilisce un clima di lealtà di gioco, si possono introdurre solo lacci legislativi interpretabili a piacimento da chi dispone della maggioranza.
le regole devono essere poche ma chiare; il loro rispetto deve essere garantito da controllori autonomi che abbiano possibilità concreta di intervento; il governo aziendale deve essere pluralistico per garantire il pluralismo