micuccio morfea
scultore -artista contadino
san pietro di caridà 1912- dasà 2001
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marabuta
c’è solo una mano che parla
non spiega il mesto sorriso
di labbra serrate dal velo
e tenta coprire il subbuglio
del corpo negato alla vita
costretto in sentenza accettata
che asciuga spirito e carne
e cela in curva del manto
l’offesa del suo sacrificio
marabuta, in dialetto calabrese, indica la monaca di casa, usanza non rara nei paesi fino ai 50. alcune donne non sposate si vestivano da consacrate, anche se non lo erano e restavano a vivere in famiglia.
la rivista trimestrale itaca, diretta da antonio minasi, ha pubblicato in digitale, nel numero di novembre 2019 ( e un precedente nell`aprile 2015), un mio articolo sullo scultore calabrese micuccio morfea (allegato in pdf pag. 13). itaca (italia-calabria) parla meritoriamente del mondo della calabria, una regione povera ma fiera, la cui vitalità culturale è poco conosciuta. la scoperta dell’arte di morfea è un passo nella valorizzazione di questa terra. consiglio a chi ama la calabria di abbonarsi e sostenere questa rivista, pubblicata grazie al volontariato degli amici casa della cultura di leonida repaci. per ottenere una copia stampata, scrivere a [email protected] ; tutti numeri sinora pubblicati sono su http://www.itacatabloid.it/
micuccio morfea (san pietro di caridà 1912-dasà 2001),
la marabuta di morfea
poche persone, forse soltanto gli anziani, sanno chi sia la “marabuta”. con questo termine in calabria si definiva la monaca di casa. erano donne non sposate che si vestivano da suore, senza essere consacrate, e restavano a vivere in casa, prestando servizio nella chiesa del paese. ne ricordo vagamente alcune agli inizi dei cinquanta, quando i miei genitori mi portavano in vacanza nei loro paesi, dasà e arena, nel vibonese. la vestizione da marabuta era una decisione personale, non una costrizione famigliare. rispondeva a una vocazione, senza avere il coraggio di entrare in convento e di cambiare famiglia; per alcune donne era forse il modo di non denunciare la condizione di zitelle, di rifiutate.
una figura, quella della marabuta, oggi scomparsa, ma che vive in un capolavoro dello scultore micuccio morfea. e’ una figura in pietra serpentina, alta sessanta centimetri: un volto ineffabile di donna di paese, coperto da un manto, con una mano aperta sul petto. un atteggiamento pietistico, di preghiera; dall’espressione non si comprende quanto sia sentito interiormente o sia formale.
l’opera è forse una delle prime di micuccio morfea, nato nel 1912 a san pietro di caridà, al confine tra le province di reggio e vibo, e morto nel 2001 a dasà, il paese della moglie, dove trascorse quasi tutta la vita. cominciò come scalpellino: tagliava le pietre per l’edilizia (case, muri, strade, ponti) e ne conosceva i segreti. trovava le venature e i versi della materia e sapeva toccarne i punti deboli. incidendo con scalpello e mazza, riusciva tagliare un masso senza rovinarlo. nelle sue mani la roccia diventava morbida, plastica, fino a rispondere alle sue intenzioni.
negli anni 60, con l’introduzione dei mattoni, morfea non trovava più lavoro come scalpellino. emigrò per alcuni anni, poi si applicò in piccoli lavori, ma gli rimase la passione per la pietra, ormai inutile nell’edilizia. aveva frequentato solo le elementari e aveva una gran voglia di conoscenza, alimentata da una vivace intelligenza. prese in mano i libri di scuola dei nipoti e leggendoli, conobbe le sculture greche e romane e quelle di michelangelo e di bernini. rimase affascinato da queste opere e iniziò a riprodurle alla sua maniera, interpretandole.
le figure femminili sono centrali nel suo interesse di artista. alla marabuta seguirono altri volti, alcuni senza manto, in atteggiamento di preghiera o di meraviglia. sono donne mortificate da cui trapela una vita interiore. ebbe un gesto di audacia, dato il tempo e il luogo, eseguendo un nudo di bagnante in piedi. la sembianza è di una donna matura e pudica. la femminilità nei suoi lavori non è mai idealizzata ma ha i tratti aspri delle contadine, segnati dalla fatica e dalle privazioni. il doppio volto ispirato al giano bifronte romano, è l’immagine somigliante di due giovani sorelle. i loro capelli, induriti dalla polvere, diventano decorazione. il dolore di maria, nella pietà, è quello perenne delle madri calabresi, ricche di disgrazie. la bellezza austera, che induce rispetto, è la caratteristica di laura. la bocca della verità, un mascherone di donna tonda con la linguaccia, esprime la segreta e proibita voglia carnascialesca femminile.
morfea aveva talento e stile nella ritrattistica, ma non ebbe fortuna. fece un busto di suo padre per il cimitero, poi quello di un nipote morto giovane. qualcuno tentò una commissione funeraria ma andò male: si volevano visi dolci, smielati, invece le sue figure avevano tratti rudi, con le rughe da intemperie e lo spirito grinzoso, rispondenti alla fisiognomica locale. tentò di ritrarre qualche faccia che lo aveva colpito: un uomo affannato dal collo grosso, un prete arcigno, un volto istruito. la forte superstizione dei calabresi tendeva a rifiutare i ritratti (mi caccia l’anima, è di malaugurio!). erano accettati di più i lavori decorativi: vasi, bassorilievi, insegne, perché non implicavano un difficile giudizio estetico.
amava molto la serpentina, una pietra igroscopica che diventa verde se inumidita e che dà un buon risultato di superficie semi ruvida. l’asperità di questa materia si presta bene alla durezza dei volti calabresi che fino agli anni settanta erano provati dalla povertà.
andava a cercare la serpentina lungo torrenti impraticabili. mi ricordo che portammo su a braccia per un dirupo, dal fondo di una fiumara, un sasso di circa quaranta chili per il ritratto di laura.
il suo studio era in un localino sotto casa; pietre e sculture si affollavano nel minuscolo cortile e sulla scala bianca di calce, sotto un fico generoso: ambiente povero e semplice ma scintillante d’idee. pochi strumenti: scalpelli, mazzuoli e seghe manuali. la pietra era domata quasi a mani nude.
in calabria, chi proviene da un altro comune, anche vicino, resta sempre un forestiero e lui, a dasà, lo era ancora di più per la sua arguzia e per il gusto di parlare in versi, con la rima. era difficile, per i suoi compaesani, comprenderlo e accettarlo come artista. morfea non si curava di derisioni e indifferenza e creava in continuazione, alla ricerca di nuovi tagli espressivi. grazie alla sua tenacia e alla sua forza, oggi godiamo opere (circa duecento lavori) che sono piena espressione della civiltà contadina calabrese. morfea, l’autore di marabuta, artista spontaneo senza scuole, maestri, accademie, merita di essere ricordato anche in spazi museali.